La gravissima crisi dell’ippica italiana che potrebbe
portare alla chiusura di un numero imprecisato di ippodromi, ci impone di intervenire con alcune
considerazioni. Primo. La crisi attuale non è il frutto della crisi complessiva
del Paese, ma proviene dalla dissennatezza dei gestori degli ippodromi, e delle
categorie ippiche. Entrambi questi attori, nulla hanno fato da anni a questa
parte per ovviare al costante calo di pubblico negli ippodromi, al drastico
calo della raccolta del gioco i cui proventi in passato alimentavano tutta la
struttura ippica. Oggi piangono. E oggi giustamente chiudono. Certo non è solo
colpa loro. I ministri che si sono susseguiti alla guida del dicastero delle
Politiche forestali, da Zaia, a Galan a Romano si sono ben guardati dal mettere
mano a un serio progetto di riforma, in un tempo in cui era possibile
intervenire con profitto. Non parliamo poi di Snai, il cui disastro era
annunciato da tempo. E che grazie alla nuova proprietà sta tornado a fare il
suo mestiere, quello della raccolta del gioco, invece di occuparsi d’altro come
in passato. Una seria riforma passa per la “privatizzazione” del settore, in
cui l’Unire (ora Assi) abbia una funzione di controllo. Il progetto presentato
da Pio Bruni (leggi Sire), va in questa direzione. Gli ippodromo devono essere
in grado di reggersi da soli. Procedendo a una raccolta del gioco in proprio,
distribuendo i proventi dello stesso sul monte premi, promozione e destinando
una parte all’Erario. Affidando la gestione computerizzata al provider Snai.
Chi non ce la fa chiude. È evidente che questo sistema penalizza i piccoli
proprietari e allenatori he da un giorno
all’altro si vedono sottrarre l’unica forma di sostentamento, il monte premi.
Per questo si può pensare a una forma di organizzazione extra ippodromi sul
modello di quella dei concorsi ippici, in cui associazioni riconosciute
dall’Unire, indicono riunioni di corse di una o più giornate sotto l’egida
dello stesso Unire, con proprio monte premi e gestione delle scommesse.
Claudio Gobbi